Ares 118

Intervento nel quartiere di Roma Infernetto dopo nubifragio del 20 ottobre 2011

Poco prima delle 15 del giorno 20 ottobre 2011, attraverso una chiamata al cellulare, sono stato allertato dalla dott.ssa Alessandra Ceracchi per una richiesta di intervento psicologico a favore di persone parenti di un giovane uomo cingalese, morto a seguito del nubifragio che, abbattutosi su Roma nelle ore del mattino, nella zona denominata Infernetto ha causato allagamento e danni in molti locali seminterrati. La richiesta era arrivata a lei dai soccorritori dell’Ares 118, in particolare dal medico dott. De Angelis, che ho a mia volta contattato per dare conferma del nostro interessamento.

Dopo una consultazione telefonica con un’altra collega dell’associazione che supponevo fosse più vicina in quel momento all’area da raggiungere, ho deciso di recarmi sul posto personalmente per ragioni di celerità riuscendo ad arrivare verso le 16.15.

Nel gruppo di persone presenti, ho individuato gli operatori dell’Ares 118, che intanto avevano avuto un cambio turno, che mi hanno indicato il posto dove erano la moglie e la sorella della persona deceduta. Si trattava di un negozio di cucine al piano terra, poco all’interno della strada, locale a sua volta allagato nel magazzino sottostante, e che la proprietaria aveva messo a disposizione per l’accoglienza momentanea della moglie con la bambina di neanche tre mesi di vita, prodigandosi attivamente lei stessa per rispondere ai bisogni emergenti.

L’unica che parlava un ottimo italiano era la sorella, 38 anni, da molto tempo in Italia, e a lei mi sono presentato invitandola a sedere da un lato del negozio per scambiare due parole.

Evidentemente in uno stato di disperazione, ha raccontato del suo legame forte con l’unico fratello, più piccolo, che ha cresciuto lei per l’assenza della madre che lavorava all’estero, e che lei aveva fatto venire in Italia per lavorare. Particolare dolore e agitazione le dava il pensiero del carattere di lui, mitissimo e pauroso (“un bambino di trenta anni”), che aveva in lei un costante riferimento, e della sofferenza che doveva aver patito in quei terribili momenti dove lei non c’era per proteggerlo.

Le ho rimandato peraltro l’impressione che lei mi trasmetteva di persona forte, capace; con una traccia di sorriso compiaciuto lei ha confermato, dicendo che avevano già affrontato tanti problemi, e sapeva che anche stavolta ce l’avrebbe fatta, ma il dolore era tanto.

Le ho proposto di andare a parlare un po’ con la moglie, e lei ha accettato di farlo traducendo per me. Una donna giovane, 26 anni, su una poltrona circondata da donne cingalesi di diverse età, che si passavano tra le braccia la piccola, in una sorta di cerchio protettivo. Peraltro mi hanno fatto spazio immediatamente, tra il rispettoso e l’intimorito, vicino alla donna. Lo stato di choc in questo caso era più intenso ed evidente; a stento riuscivo ad ottenere la sua attenzione per più di qualche secondo, in genere con gli occhi molto aperti sembrava guardare di fronte a sé, nel vuoto, per poi dire qualcosa o sussurrando tra sé e sé, o piangendo con strazio rivolgendosi alla cognata, che in qualche momento si è lasciata coinvolgere nella corrente emotiva. Era quando parlavano di lui, di quel suo essere piccolo e pauroso. E’ riuscita peraltro a rispondermi sull’accaduto; lei era da poco al piano di sopra con la bambina, era salito anche l’amico che lo stava aiutando a portare su tutte le cose, quando si era sentito un rumore fragoroso, il muro che sotto la pressione dell’acqua era crollato, con un allagamento immediato. Lei avrebbe voluto morire con lui, mangiava solo perché doveva allattare la piccola. Su questo anche la cognata esprimeva preoccupazione: quando l’aveva chiamata sul cellulare gridando, le diceva di venire presto a prendere la figlioletta, perché lei si voleva buttare nell’acqua e annegare. Mi sono accertato di capire dove avrebbe trascorso la notte, e la sorella mi ha rassicurato dicendo che sarebbe stata da lei, con suo marito in casa e i due figli, il più grande di sei anni legatissimo allo zio; a lui cosa dire? Era il suo angosciato pensiero, e lo stesso alla madre di 58 anni che già stava sull’aereo in  arrivo l’indomani mattina. Le ho risposto con fermezza che doveva semplicemente  dire la verità.

Un momento di particolare durezza è stato quello in cui la sorella  attendeva che portassero fuori il defunto: lo voleva vedere, a tutti i costi, e minacciava di buttarsi a terra strillando se non glielo avessero permesso. L’autombulanza è passata e lei, trattenuta  saldamente da quattro-cinque donne, si è abbandonata a tutta la disperazione che aveva dentro con grida e divincolamenti. Più tardi sembrava ricomposta, e  ha detto che almeno un po’ si era sfogata

Mi sono allontanato per parlare un po’ con gli uomini del 118, e il medico mi ha segnalato la possibilità di far ricoverare qualcuno, cosa che non mi è sembrata opportuna o necessaria; da lui mi sono peraltro informato se era possibile dare un calmante alla moglie compatibile con la condizione di puerpera, ma  è stato esclusa l’ipotesi.

Tornando al gruppetto nel negozio, ho notato un uomo cingalese con la testa tra le mani, con i gomiti sulle ginocchia, e mi hanno detto che era l’amico presente al dramma. L’ho accostato spiegandogli il mio ruolo, e con grande gentilezza ha accettato di venire a parlare da parte, pur esprimendosi male in italiano. In stato di choc anche lui, aveva una respirazione alterata, come a blocchi, sempre piegato più o meno in avanti, con l’espressione del viso movimentata da smorfie di dolore. Diceva di avere davanti a sé la scena, il rumore, e piangeva dicendo di quello che aveva tentato di fare per tirarlo fuori di là, senza riuscire, e di un tubo per respirare. Mi ha chiesto se parlavo inglese, e lì ha potuto esprimersi di più, anche a prezzo di una mia minore comprensione connessa all’eloquio affannato, veloce, frammisto a toni di pianto nella voce. Ho provato a proporgli un’attenzione sul respiro per approfondirlo un po’, ma pur con cortesia non ha aderito. Al momento è disoccupato, lavorava nelle famiglie come domestico, coniugato e senza figli.

Gli ho raccomandato più volte di ricordarsi di sè stesso, di prendersi cura e di volersi bene, rimanendo unito alla famiglia dell’amico morto.

 Verso le 19, dopo i saluti alle due donne – cui ho lasciato il mio recapito telefonico – e ad altri presenti, ho lasciato la località.

Roma,  21 ottobre 2011

                                                                                                   Giovanni Vaudo

                                                                                                   Psicologi per i Popoli – Lazio