Incidente metro B di Roma 5 giugno 2015
Pre-allertato dalla Dott.ssa A. Ceracchi dell’Ares 118 verso le ore 10, ho ricevuto dopo circa mezz’ora la comunicazione della Dott.ssa D. Pennacchi (Coordinatrice degli interventi psicologici d’emergenza presso gli ospedali di Roma) affinché fornissi i nomi degli psicologi volontari che si potevano recare al Centro Traumatologico Ortopedico della Garbatella, per assistere alcune persone trasportate lì per cure sanitarie, dopo l’incidente occorso sulla linea B della metro, all’altezza della fermata Roma Palasport.
Non essendo possibile disporre di nessun altro dato informativo sull’evento, ho telefonato ad alcuni colleghi di PxP Lazio più in zona, come me, oltre alla Vicepresidente, avviandomi al presidio sanitario con l’intento di chiedere rinforzi qualora la situazione da me stimata lo richiedesse.
Giunto in breve sul luogo, e superata la “barriera” dell’infermiere del triage, ho cercato di capire meglio l’entità dell’evento dalla caposala, spiegando soprattutto a lei, ma un po’ a tutti coloro che mi incrociavano con sguardi indagatori, chi fossi e perché ero lì. In generale la mia funzione è stata abbastanza accettata, da alcuni sanitari di più, da altri meno, ma comunque senza alcun incidente di percorso. Dopo un po’ è anche arrivato il Primario che si è presentato, dicendomi che sapeva del mio arrivo, e ringraziandomi con affabilità per la presenza.
In tutto le persone arrivate dall’incidente erano 5-6, da individuare in sala di attesa e dentro il corridoio del triage: ho parlato prevalentemente con una signora inglese, dal buon italiano che solo nella foga dell’eccitazione emotiva doveva a tratti lasciare il posto alla lingua madre, con il marito australiano disteso su una barella all’interno, con una signora di 75 anni sulla barella anche lei, che pur lamentandosi quasi nulla riferiva di dolori acutissimi alla schiena e ad una spalla, con la figlia e il genero arrivati successivamente, con una signora dal viso molto rabbuiato e poco desiderosa di parlare, e infine qualche battuta con un’altra signora che, recatasi al lavoro dopo l’incidente, accusando dolore ad una caviglia era venuta in un secondo momento per accertamenti.
Tutti hanno riferito di un botto fortissimo e improvviso che faceva pensare ad una bomba, con un arresto tale da sbalzare chi era seduto e far cadere chi era in piedi agganciato ai sostegni. Erano in un tunnel, quindi al buio, e da certi odori alcuni hanno temuto fortemente si sviluppasse un incendio; chi poteva ha cercato di uscire, grazie alle porte apertesi, e camminando in una sorta di penombra (c’era luce naturale dal fondo ) tenendosi al corrimano in acciaio; ma alcuni li hanno visti per terra, anche con sangue, e alcuni altri hanno iniziato a gridare con forza, chiedendo aiuto.
La signora inglese, dalla quale ho tratto le maggiori informazioni, era molto preoccupata dal marito – 78 anni, oltre il metro e novanta e molto magro- anche perché essendo in quel momento concentrato sul computer era stato colto in totale sorpresa e secondo lei era caduto pesantemente; di sè stessa riferiva di una reazione piena di energia al momento, per passare poi a tachicardia, nausea ed evidente eccitazione, pur mantenendo una piena lucidità.
Il marito – a parte e altrove – quasi ostentava invece una certa tranquillità, evidenziando come il suo carattere sia fatto in un certo modo, e giocando bonariamente un po’ sulle donne che forse tendono più degli uomini alle reazioni isteriche; ho capito dopo che su questo aspetto ci sono dinamiche tra loro, perché lei parlava di come lui ci tenesse ad apparire per orgoglio in pubblico, schermando una realtà che poi nella vita privata si capiva molto meglio.
La signora anziana riferiva, oltre al dolore, preoccupazione per la situazione familiare, con un marito anziano in situazioni fisiche molto precarie (tra l’altro dializzato da anni); alle mie domande per capire di quali supporti potesse avvalersi, è stato riferito di una figlia sposata con bambino, la quale doveva venire a momenti; dopo ho saputo che intanto aveva già telefonato al marito dicendogli di un importante ritardo del medico da cui si stava recando, per prendere tempo.
Su indicazione di un infermiere son andato poi a parlare con la figlia in sala d’aspetto, che non facevano entrare (anche il marito mi era venuto incontro un po’ sollevato che ci fossi per rassicurare un po’ la moglie). La prima reazione quando ho detto chi ero e l’ho invitata dolcemente a fermarsi, è stato uno scoppio di pianto, di cui si scusava e di cui io evidenziavo il diritto e il valore. Ci siamo accomodati ed ha iniziato a raccontare della situazione familiare di cui lei è la referente giovane unica, che non potrebbe mai lavorare con tutti gli impegni che le comporta; quando l’hanno chiamata per andare dalla madre, l’ho accompagnata, ed entrambe sono scoppiate a piangere, accarezzandosi. In poco tempo però son passate a parlare della gestione concreta dell’emergenza, con la figlia che si mostrava molto rassicurante alle varie questioni ansiosamente poste dalla madre, riuscendo anche far battute per farla sorridere, e ridendo un po’ lei stessa. Di questo dopo ne ho riparlato con lei, esprimendo comprensione e ammirazione per la forza con cui porta avanti il suo ruolo nelle relazioni parentali, anche grazie al sostegno dato dal marito, che pur dovendo tornare al lavoro si era offerto volentieri per il difficile compito di comunicare in qualche modo la notizia al padre.
La persona più in difficoltà, rabbuiata e sotto choc, con senso di poco contatto con l’ambiente, è stata l’ultima; fisicamente poco compromessa – naso con livido vistoso, mano con piccola fasciatura ma normalmente deambulante – ha accettato di scambiare cortesemente poche battute con me, ma senza mai aggiungere altri elementi di sé, della sua storia, esprimendo anzi il desiderio di non parlare. In verità l’avevo vista parlare con due poliziotti venuti a cercarla per ridarle dei documenti smarriti, e dal tempo per cui si erano intrattenuti avevo pensato indagassero sulla dinamica dell’incidente, ma non era stato così, si era trattato di un vero supporto/incoraggiamento da parte dei due agenti, conclusosi con espressioni verbali e fisiche reciproche abbastanza calorose.
Dopo un paio di ore, quando la situazione mi sembrava molto rientrata, ho salutato sia le persone – che mi hanno ringraziato – sia i sanitari con i quali avevo avuto contatto, e mi sono congedato, ricordando al Primaro dott. Giuseppe Fiore il nostro rapporto di collaborazione volontaria con l’Ares 118, che a breve prevede una formalizzazione.
Roma, 5 giugno 2015
Giovanni Vaudo
Psicologi per i Popoli – Lazio